Sylvia Plath // Specchio in “Il viaggio sciamanico” – prof. Ciro Sorrentino

Sylvia Plath // Specchio in “Il viaggio sciamanico” – prof. Ciro Sorrentino

Sono esatto e d’argento, privo di preconcetti.
Qualunque cosa io veda subito l’inghiottisco
tale e quale senza ombre di amore o disgusto.

Io non sono crudele, ma soltanto veritiero
– quadrangolare occhio di un piccolo iddio.
Il più del tempo rifletto sulla parete di fronte.

È rosa, macchiettata.
Ormai da tanto tempo la guardo
che la sento un pezzo del mio cuore.

Ma lei c’è e non c’è. Visi e oscurità
continuamente si separano.
Adesso io sono un lago.

Su me si china una donna cercando in me
di scoprire quella che lei è realmente.
Poi a quelle bugiarde si volta: alle candele o alla luna.

Io vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Me ne ripaga con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Anche lei viene e va.

Ogni mattina il suo viso si alterna all’oscurità.
In me lei ha annegato una ragazza, da me gli sorge incontro
giorno dopo giorno una vecchia, pesce mostruoso.

(traduzione di Giovanni Giudici)

Sylvia Plath // Specchio in “Il viaggio sciamanico” – prof. Ciro Sorrentino

La poesia rappresenta subito una situazione “irreale” e capovolta: uno specchio racconta dell’anima di chi in esso osserva e cerca. In effetti, c’è una “simultaneità” e una “compenetrazione” tra lo specchio e il mondo interiore di Sylvia Plath, la donna che vive tra indugi, angosce e la volontà di riconoscersi e definirsi. L’ “atmosfera sospesa” è la condizione limite, la circostanza che avvolge e rappresenta l’ “io riflesso”, la sua vertigine “spazio-tempo”, e, soprattutto la sua necessità di sciogliersi dalla tetraggine del vuoto, magari ritrovando una regolarità emotiva che salvi dall’insolvibilità ad essere. Ma per gli occhi “cercanti” di Sylvia Plath, c’è il silenzio metallico dello specchio, una “distanza” che blocca in una sorta di inesorabile ed immobile limbo. Ed è questa “distanza” che la coscienza vuole annullare, affinché la vita possa liberarsi da un vortice che sconfessa ogni speranza. Si avverte la volontà di cogliere una gemma nel deserto che incenerisce le emozioni e le aspettative di rinascita, ma, soprattutto, si percepisce il bisogno di ritrovare una stilla di “energia”, per ricomporre le “fratture” che danno origine al dolore dell’essere.

Nella nostra esegesi, intendiamo chiederci perché Sylvia Plath cerchi lo specchio come unico interlocutore ed osservatore. E la risposta viene naturale: nel suo fondo, lo specchio assorbe ciò che inquadra, è soltanto un occhio che annulla la diversità. E Sylvia cerca proprio qualcosa che non deformi le cose, che rimandi la foto esatta e precisa di chi gli è di fronte, senza provare gioia né dolore. D’altra parte, lo specchio resta immobile, è come una vedetta che punta il suo sguardo sempre in uno stesso angolo della stanza, la stanza segreta di Sylvia, tutta punteggiata di rosa. Da tempo immemore lei gli si avvicina, a lungo fissa le trasparenza d’acqua, cercando in esse il suo volto. Ma quando ritrova una memoria piange, soffrendo le tante illusioni sbriciolate ormai nella notte del tempo. Dall’oscurità senza sogni, in una luce assente, Sylvia Plath vorrebbe ritrovare nello specchio i suoi giovani occhi, ma le ritorna solo uno sguardo estraneo ed assente: lo specchio non ha potuto conservare nulla della ragazza di un tempo, e ora non può che offrirle il viso deforme di una donna trascurata e sola.

Lo specchio è una cartina di tornasole, lo strumento ottico che sta abituando Sylvia Plath a “sentirsi” e a rilevare i contrasti tra la sua viva coscienza e un corpo inadeguato a contenere tutta l’energia del suo essere. Da questo scoprirsi allo specchio insorge il desiderio di intraprendere altre vie, di compiere altre scelte che conducano alla realizzazione di un sogno lungamente accarezzato. Ma subito viene da chiedersi quale specifico sogno stia vivendo Sylvia Plath. Di fatto, l’unico sogno possibile è quello inseguito nella “teatralità” della morte (“Lady Lazarus”), il sogno della rinascita e della liberazione, quello che le può consentire di “svestirsi” dei vieti e logori abiti propri di un arco d’esperienze umane. Ecco dunque che lo specchio diventa oggetto di mediazione tra metamorfosi e illuminazione, il tramite che annuncia l’arrivo di un treno sul quale salire per lasciarsi alle spalle tristi ricordi e involarsi verso nuovi orizzonti. Raggiungere una nuova consapevolezza, guardare se stessa e gli altri con rinnovata speranza di partecipazione, sono imperativi categorici per Sylvia Plath che “preannuncia” un viaggio, ineludibile per poter essere e autodeterminarsi. Di fronte allo specchio, Sylvia Plath avverte il richiamo della giovinezza, cioè della vita, ed è evidente in questo comportamento che il suo io voglia nuovamente stupirsi e assimilarsi allo spettacolo semplice e stupefacente del creato. 

Ma il riappropriarsi della propria giovinezza è un atto impossibile, perché il tempo storico inevitabilmente è trascorso e gli anni pesano sulla fisicità, e parimenti pesano le inquietudini e le preoccupazioni quotidiane che schiantano le speranze e la fiducia dell’essere, l’essere che senza più illusioni si guarda allo specchio e quasi inorridisce nello scoprire i segni del tempo nelle pieghe che spaventosamente si materializzano sul viso. Ma ancor più del peso che le rughe possono assumere sul corpo, è il pesante fardello della loro pressione interiore che impedisce a Sylvia Plath di proseguire in questa vita (come un gatto dovrà consumarne un’altra, un altro fiammifero dovrà accendere per farsi luce nel buio che l’avvolge). La coscienza di una frattura temporale, tra il tempo dello spirito e il tempo esterno del mondo fornisce una terribile verità, e l’essere non riesce più a liberarsi dai vincoli, né ad entusiasmarsi, né a svuotarsi di tutte quelle esperienze passate che hanno deviato il corso lineare e sereno del domani. Quando la coscienza si ritrova nel silenzio di ghiaccio dello specchio, scopre di essere in ritardo nel suo viaggio terreno, scopre di aver perduto le occasioni migliori, e inorridisce nel toccare le rughe del suo corpo. La sola alternativa possibile è quella di riavvolgere i fili del suo burattino, riponendo tutta l’amarezza di quel “Pierrot” nella cassa dei ricordi, e provare a non girarsi intorno con la faccia che piange, ma solo con il lato opposto che, come un petalo rosa, si apre ad un nuovo sorriso.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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